“Breve catalogo di possibilità non fallite” è l’antologia vincitrice della quinta edizione del Premio internazionale Montag per la sezione narrativa. Storie di redenzioni (cercate) e di espiazioni (inseguite), dieci racconti di squarci emotivi, crudi, a volte, cinici, altre, in un caleidoscopio di piccola umanità in viaggio, il più delle volte emotivo, scomodo e conflittuale, come dev’essere la narrativa.
Luca, dicci qualcosa di te. Il te che nessuno può conoscere leggendo la tua biografia.
In realtà non credo di conoscermi così bene neanche io. Le uniche cose che davvero so di me sono quelle che vengono certificate. Come appunto accade in una biografia. Non lo dico per spocchia: è che sono molto timido e parlare di me mi risulta sempre imbarazzante.
“Breve catalogo di possibilità non fallite” è un sentiero che scava nell’animo umano. Una recherche moderna, un viaggio di contrasti, ma dalle mete incerte. E tu, verso quali mete vuoi condurre il lettore?
Credo che nel complesso i miei racconti riportino il lettore verso la tradizione, quella tradizione che cerca di inquadrare il centro partendo dalla marginalità. Il centro sono da sempre i temi focali della nostra esistenza. Poi, nella lettura, conta sempre il viaggio, non l’approdo: per questo cerco, con le mie storie, di non dare risposte definitive, ma di lasciare sospesi i conti sia con la narrazione che con il lettore. Perché il lettore deve contribuire con il suo punto di vista a dare risposte alle domande che mi e gli pongo. Il racconto Notte marina è forse il testo della raccolta dove questa sospensione è più esplicita. Ecco: probabilmente la meta è proprio l’inesplorato, l’incompleto che alberga dentro noi stessi. Porto chi mi legge a confrontarsi con personaggi che sono in conflitto con la loro essenza perché non riescono a identificarsi pienamente con quella. Penso che ogni dramma scaturisca da questa non perfetta aderenza tra le parti che ci compongono. Dai cortocircuiti esistenziali nasce lo stimolo al racconto.
In dieci parole: perché dovremmo leggere l’antologia?
Perché di sicuro può capitare anche di leggere di peggio.
Personaggi in cerca di espiazione, eppure trovare la redenzione è tutt’altra cosa. Temi, se vogliamo, classici, ma sempre attuali. Perché i protagonisti, letterari e reali, anche nella vita di tutti giorni, hanno sempre qualcosa da farsi perdonare?
Credo dipenda dal fatto che non ci sentiamo mai realizzati. La vita in sé stessa è priva di forma e questo ci smarrisce. Il senso di incompletezza che ci caratterizza ci porta a ripensare costantemente alle nostre scelte e, spesso trovandoci in una condizione di infelicità più o meno latente, non possiamo che ripensare ai nostri percorsi sognando di fare delle correzioni che diano senso completo alla nostra quotidianità. In fondo sappiamo che nessuna scelta ci porterebbe alla felicità, ma solo a un’altra forma di incompletezza. Però è lì, nel movimento, nella possibilità di creare qualcosa di diverso che ci sentiamo davvero vivi. Vivere è espiare i nostri rimpianti.
La forma racconto, non inusuale ma particolare, soprattutto in un paese, editorialmente parlando, dove è abbastanza ignorata (ma che a noi della Montag piace molto).
È la forma che mi affascina di più in assoluto: poter condensare in poche immagini un intero percorso è un lavoro complesso che richiede molta cura in fase di impostazione. È un peccato che in Italia il racconto, adesso, sia meno battuto di una volta: nella nostra tradizione abbiamo avuto grandi interpreti della narrazione breve: mi vengono in mente Moravia, Calvino, Landolfi, Fenoglio, Parise o quel gioiello di stile che è Bestie di Tozzi. Adesso invece spopolano le forme seriali, debordanti. Il lettore è attratto dal tempo lungo forse come autodifesa contro i ritmi frenetici della modernità. Credo, però, sia anche una questione di educazione al gusto: adesso sono le piattaforme televisive a creare l’immaginario collettivo. Un racconto breve è un testo denso che richiede una concentrazione assoluta che i lettori contemporanei non sempre sono disposti a concedere.
Come nasce il Luca scrittore?
In realtà è un percorso lungo e non lineare. Mi sono spesso percepito come scrittore anche prima di cominciare davvero a scrivere. Sono da sempre un lettore estensivo e onnivoro e immaginarmi dall’altra parte del libro, nella fucina dell’autore, mi è sempre venuto spontaneo. Poi per anni ha prevalso una pigrizia che mi ha spinto a procrastinare l’appuntamento sistematico con la pagina bianca. Purtroppo non sono metodico: scrivo solo quando la storia si è formata completamente nella mia testa; a quel punto devo liberarmene per lasciare spazio alla storia successiva.
Su cosa hai costruito la tua strada per la scrittura?
Di sicuro tutto è nato con il confronto con i grandi classici e con la mia fame di storie. La parte più difficile è imparare a riconoscere il proprio stile, il proprio taglio, il proprio lessico. Io ho capito solo con il tempo di essere un autore portato per la brevità e, tutto sommato, la cosa non mi dispiace. I miei puntelli sono comunque i classici dell’Ottocento e della prima parte del Novecento. In più sono uno scrittore dicotomico: alterno registri leggeri e comici a registri drammatici. Non penso sia una cosa rara: l’ironia è solo un altro modo di esprimere il proprio spaesamento.
Come ci si sveglia il giorno dopo aver vinto un premio?
Come tutte le mattine, ma più leggeri. Il grande Flaiano ha detto che il dramma più grande per un genio è di essere capito. Ora, chiaramente io non sono un genio, ma con i premi letterari mi piacerebbe vivere una vita costantemente drammatica. È un rischio che correrei volentieri. Ammettiamolo, vincere è proprio bello.
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