“Lavoro da casa, e non è affatto smart…” è la silloge vincitrice della quarta edizione del Premio Internazionale Montag per la sezione poesia. Un’opera intima, nata negli ultimi anni e che ci ha conquistati per spontaneità ed empatia. Un modo estremamente personale di porsi davanti al mondo alla ricerca di risposte per domande mai sopite.
Stefano, dicci qualcosa di te.
Sto esaurendo il mio 63esimo anno e ho ancora tantissimi perché di cui cercare la risposta. Ringrazio la curiosità che ha avuto la meglio sulla pigrizia e mi ha portato a uscire di casa a guardare il bello (e il brutto) del mondo. Non ho ancora capito cosa voglio fare da grande e, salvo i pochi momenti che lo richiedono, evito di essere adulto. Sono nato l’8 marzo ed era una splendida giornata di sole; a Venezia, che è una città meravigliosa; con i capelli rossi (ma per fortuna a quel tempo era passata la moda di gettare i “pel di carota” giù dalla rupe).
Sono il primo di quattro fratelli – in realtà tre fratelli e una sorella, quella che è arrivata seconda ma sa tutto per prima – e i miei genitori non mi hanno maltrattato neanche quando l’avrei meritato. Papà mi ha insegnato a prendere la vita con una buona dose di ironia, mamma è stata tra le prime a leggere i miei testi che ha in buona parte approvato. Negli studi ho avuto alti e bassi: sono partito alla grande, poi mi sono seduto, infine ho chiuso con la lode e un lavoro da redattore di una prestigiosa rivista Internazionale d’arte: Contemporanea prima di discutere la tesi e poco dopo essermi innamorato di Elisabetta, la mia compagna di vita. Finita l’esperienza con la chiusura della rivista – la relazione per mia fortuna è continuata – ho preferito restare nella mia città adattandomi al lavoro che capitava, poi ho cercato casa e ho lasciato la mia città ritornando alla carta stampata (anche se di minor qualità) e costruendo il mio nido nei pressi di un lago.
Avendo poco sale in zucca sono dovuto tornare al mare e ai serenissimi difetti e pregevolissimi amici veneziani. Ho avuto la fortuna di collaborare con la Fondazione Giorgio Cini e qui incontrare persone eccezionali (a volte anche uomini senza qualità, ma questi si diffondono ovunque) per poi lavorare per Giovanni, nipote di Vittorio Cini, tra le altre cose curatore dell’Archivio di suo nonno e testimone delle mie nozze. Dal 2017 lavoro da casa, non è affatto smart, ma spesso mi fa compagnia la voce di mia figlia Giulia che si esercita nel canto.
In dieci parole: perché dovremmo leggere la tua silloge?
Perché ci sono curiosità, tante domande e poche risposte certe
C’è chi dice che la poesia sia morta. Immaginiamo tu non sia d’accordo.
Ogni tanto ci piace dar per morto qualcuno o qualcosa. “Non so nemmeno io perché motivo, forse perché son vivo”. La poesia è sempre sul filo dell’estinzione anche se è sopravvissuta alla morte di Dante Alighieri e di un bel numero di poeti importanti. Comunque a consolazione, ho anche sentito che è morto il cinema, il teatro è invecchiato parecchio e i romanzi non sono più quelli di un tempo.
La poesia è fatta di incontri, passione, emozioni. Mi raccontava Giovanni Giudici, poeta su cui mi sono laureato e che ho avuto la fortuna di conoscere, che un tempo il poeta un po’ si vergognava di esserlo. A me è capitato di arrossire quando un mio compagno ha preso dei miei testi e li ha declamati con fare attoriale e da presa in giro. Ho capito che a volte la stessa cosa, letta in modo diverso o con occhi diversi, acquista o perde valore immediatamente. Mi sono sentito importante quando Alfonso Berardinelli, mio professore di letteratura contemporanea ha preso delle mie poesie e le ha portate di sua iniziativa a Linea d’ombra (rivista molto ambita ai tempi in cui frequentavo l’Università), mi sono infastidito quando la redazione ha deciso di non pubblicarle (forse non a torto). Ho vissuto male le lettere con cui un importante editore mi ha negato la pubblicazione accompagnandola con motivazioni contrapposte tra redazione (buona fantasia ma tecnica da affinare) e direttore editoriale (troppa tecnica che soffoca la fantasia) e sono stato felice di arrivare secondo a un poeta che stimavo molto. Fino a che ci si pongono domande, ci sono opinioni discordanti, ci si può confrontare e si può incontrare nel singolo verso di uno sconosciuto un attimo felice, credo che la poesia sia tutt’altro che morta.
Come nasce lo Stefano poeta?
Per istinto. Un mio amico diceva che gli uomini non sono diversi dagli altri animali e alla resa dei conti cercano in sé una qualche qualità o capacità che li distingua per cercare di conquistare qualcuno. A giocare a pallone ero piuttosto scarso, ero decisamente troppo timido per essere quello divertente del gruppo, non mi accompagnava un fisico da atleta o il portafoglio di un imprenditore. Ho scoperto presto che mi piaceva leggere molto e che riuscivo a scrivere discretamente e ferinamente mi ci sono applicato.
Poi penso che nel tempo ci si trasformi. Non solo fisicamente. Un mio io ventenne mi somiglia ma non sono io oggi. Nel momento in cui sento “il suo ticchettio”, la poesia è padrona del mio neurone, mi assento e la lascio uscire. Con il passare dei giorni cerco di rovinarla mettendoci qualcosa di ragionato. Qualche settimana dopo la rileggo e non mi piace per nulla. A distanza di anni mi è capitato di trovare interessanti i miei versi ma dubitare di averli scritti.
Laureato in lettere, caporedattore di riviste, collaboratore della Fondazione Cini di Venezia, autore di articoli di viaggio e recensioni… Una vita scandita dalle parole.
La parola, soprattutto la parola scritta, è una delle poche costanti della mia vita. A quanto anticipato dalla domanda, aggiungerei lettore, anche se i libri che ho letto sono sempre meno di quelli che vorrei leggere e scopro ogni giorno quanti sono gli autori che non ho mai “conosciuto”, quante pagine fondamentali mancano alla mia formazione e quanto è l’intrattenimento che non ho goduto. Ma nel mio lavoro ho dovuto anche fare il correttore di bozze e salvare testi che naufragavano nel nulla, convertire il mio tipo di scrittura adattandolo alla rete e cercando parole chiave invece che titoli avvincenti. Sono stato fortunato a vivere ambienti in cui la collaborazione aveva la meglio sulla competizione anche se mi è capitato di incrociare l’insicurezza, che oggi domina la società, e subire la voglia di apparire di qualcun altro, l’antagonismo che tanto male fa al mondo. Competere con qualcuno, può essere da stimolo se poi la competizione si chiude con un terzo tempo in cui si festeggia insieme, se ci si sfida senza ricorrere a trucchi, senza voler sconfiggere un nemico.
Posso dire che nella vita non ho fatto quello che volevo fare, ma che quello che ho fatto non mi è dispiaciuto. Posso dimenticarmi o non riconoscermi ma le parole restano, mi raccontano, mi ricordano chi ero, chi le persone che frequentavo, come si sono trasformate insieme ai miei anni.
Come ci si sveglia il giorno dopo aver vinto un premio?In Manhattan, Woody Allen fa un elenco delle cose per cui vale la pena vivere. Io penso ai momenti per i quali vale la pena vivere: il momento in cui ho visto mia figlia nascere, il primo bacio da innamorato, due mani che si stringono, il mio goffo sì il giorno del matrimonio e il sorriso di mia moglie, una tavola imbandita che accoglieva da mia nonna a mia nipote la vigilia di Natale, la gioia e l’orgoglio negli occhi di mamma e papà il giorno della mia laurea, una serata di risate contagiose con gli amici “di sempre”, mia figlia che sale su un palco e conquista il pubblico con il piacere di cantare, la soddisfazione per aver pubblicato alcune poesie perché qualcuno ha creduto in me… e dovrei continuare l’elenco con tutte le persone cui per riconoscenza dovrei regalare una copia del libro. E dopo trent’anni che non mi cimentavo in concorsi e riservavo la mia scrittura ai pochi (s)fortunati che standomi vicino erano costretti a leggermi o ascoltarmi e a me stesso – il giorno dopo il premio – alla contentezza si è aggiunta la voglia di credere a chi mi diceva che la capacità che ritenevo di avere, probabilmente c’era.
Il libro lo trovate cliccando QUI